Cianotipia: dall’immateriale al materiale

Domenica 15 maggio si è tenuto, alla Cavallerizza Reale, il secondo incontro con il fotografo Antony Stringer per il suo workshop di antiche tecniche fotografiche.

Questo incontro è stato particolarmente coinvolgente poiché abbiamo avuto la possibilità di sviluppare, mediante il processo della cianotipia, delle foto digitali scattate da noi. Infatti, qualche giorno prima ognuno di noi aveva mandato una o più foto ad Antony, il quale, dopo averle convertite in bianco e nero e in negativo le aveva fatte stampare su pellicola.

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Un foglio cosparso di Cianuro di Potassio. Foto scattata da Piera Riccio

Il primo passo è stato quello di cospargere dei fogli da disegno di una soluzione di Cianuro di Potassio. Dopo averlo fatto asciugare in una stanza buia (la soluzione è, ovviamente, altamente fotosensibile), vi abbiamo adagiato la pellicola e, avendola coperta con un vetro, l’abbiamo lasciata al sole. I tempi di esposizione sono vari. Alcuni di noi hanno sviluppato delle proprie composizioni con foglie e fiori, un po’ come faceva lo stesso Herschel (colui che mise a punto questa tecnica nel 1842), e per sviluppare questo tipo di opere sono stati necessari tempi di esposizione molto più brevi.

La caratteristica peculiare delle foto che vengono sviluppate mediante questo processo è sicuramente il colore blu (difatti, anche il nome cianotipia deriva da “ciano”). Tuttavia, alcune volte questo colore può sembrarci poco adatto al senso che vogliamo dare alla nostra foto e, quindi, si può decidere di rimuovere il blu mediante uno schiarente (Carbonato di Sodio) e immergere la foto in acqua e caffè ottenendo un risultato molto più caldo e, in qualche modo, neutro, essendo più vicino al noto effetto “seppia”.

Anche stavolta, Antony ha detto qualcosa che mi ha fatto riflettere particolarmente: “Col digitale facciamo le foto e ce ne dimentichiamo, io spero che queste che state sviluppando oggi possiate conservarle almeno fino a quando avrete la mia età.”

In effetti, tendiamo sempre a pensare che ciò che archiviamo in digitale possa durare per un tempo infinito, proprio per la caratteristica di essere immateriale e di essere meno soggetto a danni fisici (escludendo ovviamente ciò che può succedere ai vari supporti materiali che sono necessari, quali hard-disk, cd, etc. …). Eppure, mi sono resa conto che, interpretando quella frase in senso metaforico, si può trovare un significato molto meno superficiale. In effetti, da domenica scorsa, quando vado a dormire, riguardo le due foto che ho sviluppato e riesco ad assaporare appieno sia i momenti in cui le ho scattate, sia i momenti in cui le ho sviluppate, quasi come se il tempo si fosse effettivamente fermato dentro di esse. Tutto ciò non mi era mai successo finché non me le sono ritrovate fisicamente davanti, incorniciate e appoggiate sulla scrivania di camera mia. Ovviamente, il digitale ha portato moltissimi vantaggi nella nostra esistenza, ma, chissà, magari il nostro approccio emotivo a ciò che ci circonda resta comunque qualcosa di essenzialmente “analogico”.

Piera

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